La ferocia di Nicola Lagioia (Einaudi 2014) non si sottrae al rito post-premio, con debito contorno di esaltazione e massacro, sulla carta stampata e in rete.
Il mio modesto punto di vista di lettrice compulsiva non è particolarmente originale. La ferocia secondo me ha il suo punto di forza in una buona storia, ben collocata nella Puglia a tutti nota per le bellezze naturali, lo scempio del territorio e il malaffare (come tutte le regioni meridionali), con personaggi credibili e ben definiti: il patriarca Vittorio Salvemini, costruttore senza scrupoli che ha conquistato in fretta il successo; la moglie Annamaria, cui il desiderio di conservare i privilegi della ricchezza fornisce la pazienza per sopportare le intemperanze del marito e la ferocia (tratto che la accomuna a tutti gli altri personaggi, carnefici e vittime) per dispensare sottili punizioni; Ruggero, il primogenito, oncologo stimatissimo, sempre sul punto di esplodere in atti di violenza insensata che canalizza efficacemente nei maltrattamenti dietro mercede inflitti alle prostitute straniere; l'inquieta, sofferente, fascinosa Clara, che si fa carico del senso di colpa per tutto il male di famiglia e ne paga il prezzo; Michele, il figlio dell'amante del patriarca opportunamente morta nel partorirlo - al quale neppure il padre fa la grazia di considerarlo un membro della famiglia come tutti gli altri - che cresce origliando, ai margini della vita familiare vera di cui non fa pienamente parte, in un disagio nel quale solo Clara riesce a trovare una breccia per stabilire un legame fortissimo; Gioia, ragazzina viziata alla quale la posizione di figlia minore fino a un certo momento della storia sembra avere consentito contatti meno profondi con il malessere familiare e che invece non sfugge al destino di squilibrio che la accomuna ai fratelli; Alberto, il marito di Clara, consapevole degli angoli oscuri della vita di lei e di quelli dell'impresa Salvemini di cui fa parte. I personaggi principali sono attorniati da interessanti figure di contorno - i collaboratori del patriarca, i notabili della città in un modo o nell'altro legati agli affari dei Salvemini, la nutrita schiera degli amanti di Clara - i cui punti di vista, intrecciandosi e sovrapponendosi a quelli dei protagonisti, delineano la cronaca amara dell'ascesa e del disastro di una famiglia venuta dal nulla e naufragata negli scandali.
La morte di Clara (che sembra un suicidio) dà a Michele - esiliatosi
a Roma da anni, con sporadiche e impacciate apparizioni nella casa in cui è stato portato neonato dal padre stravolto - la possibilità di riprendere contatto con il passato, con la sua storia e con quella della famiglia in cui è cresciuto e di rivedere i conti sospesi.
E veniamo al punto debole, almeno dal mio punto di vista. Troppe immagini. Troppi dettagli francamente inutili. Digressioni delle quali non si sente il bisogno, che spezzano il ritmo narrativo. Per far visualizzare la scena al lettore non è indispensabile descrivere ogni singolo gesto (mettersi i calzini e le mutande e la camicia facendosela passare da un braccio all'altro, per esempio), bastano (e sono più efficaci) due o tre pennellate decise; anche sui fondali Lagioia si sofferma troppo, con un effetto complessivo irritante. D'accordo, l'alternanza luce-ombra ha una sua forza simbolica, ma non occorre che vi si torni continuamente su con descrizioni di alberi ombrosi e dettagli del modo in cui le foglie si riflettono sulla carrozzeria delle auto e sul bordo della fontana, con precisazione degli orari in cui l'ombra cade in un certo luogo; d'accordo, il reiterato accostamento tra le vicende umane e l'arrabattarsi degli insetti, dei ratti e degli uccelli è significativo, ma l'insistenza diventa stucchevole. Peccato. Peccato, perché nelle pagine in cui l'autore non si abbandona (o si abbandona meno) ai rutilanti giochi di parole - per esempio le pagine in cui descrive l'indagine privata che Michele conduce sulla morte della sorella in un crescendo drammatico di scoperte e rese dei conti - l'impatto delle vicende narrate è davvero forte. La storia in sé sarebbe abbastanza intensa da poter essere narrata con asciuttezza carveriana o comunque con meno concessioni al gusto per la bella immagine.
Rosalia Messina